profughi - give peace a chance

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israel - give peace a chance

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Jerusalem/Al Quds - give peace a chance

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guns & moses

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9/08 - Afek, un fico d'india e mezzo sorriso dal kibbutz

Mi sono messo a camminare stamattina alle 8. La sciagurata moglie di Walid mi ha fregato: mi ha venduto per 1 euro una bottiglia d'acqua... del rubinetto.
Butto via tutto, che non mi faccia male, e ho 15 minuti di sfrigolante razzismo in cui rivivifico tutto il repertorio dei pregiudizi anti-arabi a disposizione di un giovane europeo: ladri, cialtroni, truffatori, sporchi, bugiardi, bastardi e assassini. Ok, mi e' passata.
Andando avanti poi non trovo piu' negozi per fare rifornimento. Fatto sta che alle 9 di mattina fanno gia´ 40 gradi e ad Afekm tappa intermedia del mio cammino di oggi, ci arrivo alle 13 completamente disidratato.
Praticamente morto e gia' mummificato.

ASfek e' un piccolo "coso" con delle abitazioni in mezzo, sperso tra km e km di campi massacrati dal sole, dove anche i girasoli sembrano agonizzare e la terra e' cosi' arsa da diventare polvere.
Oltrepasso il cancello: sembra essere l'unico varco in un lungo perimetro di recinto e filo spinato.
Ho ancora un'autonomia di 25 secondi prima del decesso. Essere umano che mi salvi urgentemente cercasi...
Una donna, donnona, sui 50... e' lei!
- Excuse me! Shalom! Dove posso trovare dell'acqua?
Con sguardo truce lei esce dal suo praticello, mi si avvicina lentamente, mi squadra sprizzando diffidenza. Usndo il numero minimo indispensabile di parole mi indica dove trovare il market. Forse e' chiuso, pero' -aggiunge.
Deglutisco poche molecole di saliva, schifosamente secca.
La donnona sta per tornare a farsi i fatti suoi, ma poi la mano divina prende i suoi occho e li guida a guardare meglio nell'ombra della visiera del mio cappello.
- Vieni, intanto ti do un bicchiere per non disidratarti.
Grazie.
Non e' che abbia perso lo sguardo truce, comunque.
Mentre andiamo verso il suo casottino -che sembra un bungalow in muratura, identico a parecchi altri distribuiti a distanza regolare nello spiazzo recintato- cerco di intavolare una conversazione. La curiosita' e' piu' forte della spossatezza.
- Questo e' un kibbutz, vero?
- Si.
- Ehm... io sono italiano.
- Ah.
- Ehm... sto andando a Gerusalemme. A piedi.
- Ah. Sei religioso.
- Be'... in un certo senso! Non fanatico, pero', capisci? [no, ti prego, non avviare una discussione teologica proprio ora...] E' che mi piace camminare. [ecco, bravo]
- Mh mh.
Non e' facile, signori. Pero' durante questo scambio di battute, pur senza mai perdere lo sguardo truce, la signora del kibbutz mi offre un fico d'india sbucciato dal catino che tiene in mano. Lo divoro sperando che possa idratarmi almeno il necessario per arrivare a bere questo famoso bicchiere.
Arriviamo alla sua porta e lei mi stoppa: ha appena lavato il pavimento.
Sparisce dentro casa. Con la pelle arsa viva dal sole che, vi giuro, non perdona, cerco disperatamente di appiattirmi per poter beneficiare dei 15 centrimetri di ombra che getta una minima tettoia.
Glu glu. Rinasco. Un po'.
- Allora grazie. E' stata gentilissima.
- Ok. No, aspetta. Ti riempio anche una bottiglia.
Ecco. Le ho fatto pena. Perde addirittura un po' della sua spiccata somiglianza col Clint Eastwood dei tempi d'oro. Non lo sguardo truce, comunque.
Sparisce di nuovo in cucina. Meta' corpo respira, meta' sta per essere pronto per essere servito a tavola, fuma. Min scolo il mezzo litro davanti ai suoi occhi.
Intanto il suo cane scodinzola, guaisce e mi lecca le caviglie.

Una ventina di caseggiati bassi, del tutto anonimi e disadorni, tipo container, distribuiti ordinatamente, con parecchia distanza tra l'uno e l'altro, collegati da vioottoli pedonali di rozzo cemento, in un'area grande come un campo da calcio o poco piu', in cui sono riusciti a fare crescere un sofferente manto d'erba e una decina di alberi.
Come ho detto, tutto intorno corre il filo spinato. Lungo tutti il perimetro, all'interno del recinto, ci sono diversi edifici bassi e brutti; si capisce che sono dedicati a piccole attivita' industriali. Decentrato, il cuore della vita pubblica: un palazzo di tre piani arancione che riunisce market, mensa, posta (o meglio: stanzina delle caselle postali), bibliotechina, quattro panchine all'ombra di una tettoia. In tutto' cio' non si vede neanche un'insegna o una scritta, in qualsivoglia lingua.
Il market, poi, e' una stanza con dieci scaffali semivuoti e quattro grossi frigo, due dei quali con il portellone non trasparente: ci metto un po', apri e chiudi, apri e chiudi, a trovare una bottiglia d'acqua.
Insomma, si direbbe che niente qui e' pensato per essere a disposizione di qualcuno che non viva qui, magari da sempre e per sempre. La "comunicazione" non ha molto senso in effetti. Chissa' se e' mai passato un altro viaggiatore, da qui?

Mi fermo a riposare su una panchina all'ombra. Mi acquatto come un predatore aspettando che passi qualcuno che mi permetta di scoprire qualcosa su questo famoso mondo dei kibbutz.
Forza, venite fuori! Cristo non c'e' nessuno?!
Dopo una mezz'ora comincia ad apparire qualche sagoma. Ogni dieci minuti una donna va al market, un vecchio va alla posta, un ragazzo va al market, un uomo va alla mensa.
Io ci provo con tutti: Shalom! Sono italian...
Gli sguardi truci si alternano ai non-sguardi, quindi al terzo tentativo mi limito allo "Shalom". Poi mi deprimo e la smetto del tutto.
Mi alzo e faccio una foto: dovro' portarmi via qualcosa da questo kibbutz, se non qualche informazione di prima mano, almeno un'immagine!
Ed ecco che mentre scatto mi sbucano dentro l'inquadratura due ragazzetti, un lui e una lei, paffuti pure loro, di 12 o 13 anni.
Lui mi guarda truce e dice qualcosa in ebraico.
Scuoto la testa:- English? Anglit? - supplico.
Lei, truce, in inglese:- Vuole sapere cosa hai fotografato.
Ecco. Ho fatto qualcosa che non andava fatto. Ho infranto le regole. Ora chimeranno i grandi. E se la mamma somiglia a Clint Eastwood, il papa'...
- Ho fotografato la... il... il kibbutz! (Si puo' dire?! loro lo chiamano davvero cosi?!? non suonera' irriverente?!?!?)
- Ah.
Bene, non fanno una piega. Allora vado io all'attacco, coi bambini e' piu' facile.
- Italiano!
- Parli italiano?! - dice lei, in italiano. L'ho conquistata, me lo sento.
- SONO italiano!
Mi spiega che ha qualche specie di parente italiano. Non si puo' sapere di piu'.
- Dove vai?
- A Gerusalemme. A piedi - Vediamo se con questo la stendo...
- Ah.
Ho capito. Qui non si cava un ragno dal buco, mi sono stufato.
Invece almeno un ragno lo voglio cavare, una cosa me la devi dire, cara bimba grassottella:
- Quanta gente vive qui?
- 300. Non famiglie. Persone.
- Ok, ciao, shalom.
Si, puoi andare piccola. Considerando questa arsura della terra e del dialogo, il tuo mezzo sorriso fatto in extremis mi bastera' per arrivare fino alla meta di oggi.
Riparto.

Uscendo dal kibbutz cerco di capire a cosa potrei paragonare questo fazzoletto di terra popolato di umani in mezzo al nulla: forse un incrocio tra una citta' del Klondike vent'anni dopo, un soviet in cui non sia mai giunta la notizia che l'URSS e' crollata, un villaggio turistico abbandonato dai turisti perche' un giorno e' sparito il mare.

1 commento:

  1. ancora ancora... ti prego ancora ^_^

    qualcosa di inafferrabile che accade. Da qualunque punto si parta si arriva ovunque ed al solito punto. Quid est veritas? Si dice che Gesù abbia risposto a questa domanda: est vir qui adest (è l'uomo qui davanti a te). Un anagramma.

    S.

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