Cari amici,
come molti di voi sanno, domani parto per un viaggio in Israele e Palestina.
Nelle prime due settimane seguirò un itinerario attraverso i luoghi santi cristiani, da Tel Aviv a Gerusalemme, facendo un lungo giro in senso orario che attraversa la Galilea. Cercherò di compiere questo tragitto a piedi, per calarmici palmo a palmo, evitando di saltare da una “cartolina” all’altra, confidando nell’“ospitalità povera” presso monasteri, kibbutz, famiglie palestinesi. Non so esattamente come si svilupperà e se riuscirò in questo intento. Ma sono fiducioso.
La terza e quarta settimana avrò come base Gerusalemme ed esplorerò la realtà della Cisgiordania, visitando villaggi e città arabe (Betlemme, Nablus, Gerico...), cercando di incontrare gente palestinese, per raccogliere storie, volti, nomi, vicinanze, riflessioni.
Se ne avrò l’occasione visiterò alcuni campi profughi (Jenin, Nablus, forse Chatila in Libano).
Che cosa mi aspetta?
Dopo il recente massacro di Gaza i nostri media non hanno più prestato molta attenzione alle faccende israeliane/palestinesi. La situazione però non è affatto stagnante.
Per quello che riguarda i palestinesi: proprio oggi è iniziata a Betlemme la convention di Fatah, già partito di Arafat e ora unico movimento riconosciuto da Israele e dall'Occidente per i negoziati, guidato da Mahmud Abbas (Abu MAzen); l’ultima convention si era svolta nell’89, in concomitanza con l’inizio della prima Intifada, e ne era uscito un documento dai toni agguerriti. Stamattina, in apertura dei lavori, Abbas ha detto che “Fatah e i palestinesi hanno scelto di perseguire la pace con Israele, ma la resistenza resta un’opzione legittima di fronte alle violazioni e agli atti di occupazione israeliani”.
Il che sarebbe già una bella novità; se non fosse che Hamas ha impedito ai delegati di Fatah residenti a Gaza di uscire dalla striscia, usando questo sequestro per forzare Fatah a rilasciare centinaia di militanti di Hamas.
Sul fronte israeliano, in questi giorni i giornali parlano con toni anche critici degli sfratti violenti e illegali ai danni di alcune famiglie palestinesi in Gerusalemme Est, compiuti per stabilire nuovi avamposti ebraici nella parte araba della città, e, probabilmente, con l’intento politico di unificare tutta la città facendo sparire il quartiere arabo. USA e GB hanno condannato con parole durissime l’accaduto, ma il governo israeliano dice che sono questioni giudiziarie, non politiche. Paradossalmente, il governo di destra (estrema) di Netanyahu è attaccato anche da destra, dall’associazione dei coloni inferocita per una presunta “collisione” segreta del governo con alcuni gruppi di sinistra che si oppongono all’espansione delle colonie in terra palestinese (notizia divulgata dalla Radio Militare, non si sa su che basi e a che scopo).
Inoltre stanno uscendo ormai da mesi i rapporti di alcuni organismi internazionali (Amnesty International, ONU, UNICEF...) che dichiarano sulla base dei dati raccolti che l’invasione di Gaza è stata forse la più violenta e criminale iniziativa effettuata da Israele nei confronti della popolazione palestinese da sempre, violando tra l’altro tutte le convenzioni internazionali sui diritti umani, la guerra e l’occupazione militare: 1400 morti (95% civili), tra cui circa 300 bambini, ammazzati in 20 giorni praticamente a sangue freddo (a fronte di 13 soldati israeliani morti).
Infine, l’opinione pubblica israeliana è scossa dalle pubblicazioni su alcuni giornali israeliani (tra cui Haaretz) di confessioni di decine di soldati che hanno partecipato all’operazione, che rivelano retroscena agghiaccianti relativi agli ordini ricevuti (“prima sparate, poi guardate a chi avete sparato”) e al comportamento dei militari (“il clima creato dai superiori ci induceva a sparare a qualunque cosa si muovesse per strada”, “non pensavamo di avere davanti delle persone”).
Per quel che riguarda me e il mio viaggio, la strage di Gaza è stato il primo campanello che è suonato come un richiamo verso quella terra.
Ma in realtà, più che la storia mi attira il senso della Storia. In nessun luogo come in Palestina si consuma la più profonda contraddizione che riguarda (forse da sempre, ma soprattutto dopo il XX secolo) l’umanità intera: la possibilità per l’uomo di inventarsi un suo essere “fuori dalla Storia”, e in opposizione la manifestazione della Storia come violenza assoluta che annichilisce l’uomo e qualunque suo sforzo.
Gerusalemme: città tre volte santa, eterna e mistica! Tritacarne dell’umanità da sempre!
Apocalisse: una Gerusalemme terrena e una Gerusalemme celeste.
Terra Santa: culla delle tre religioni monoteistiche (compreso l’Islam, che ha in Gerusalemme alcuni dei suoi luoghi più santi, e che verso essa indirizzava l’atto della preghiera, almeno fino all’Egira e alla sostituzione con la Mecca).
Terra che, attraverso le tre religioni, ha suscitato le più profonde riflessioni sul rapporto dell’uomo con la Storia, la violenza, il potere, il male, l’uscir fuori dalla Storia, la salvezza, non l’innocenza ma la purificazione, la creazione di alternative alla catena eterna della sopraffazione.
Parto pensando all’origine e all’oggi: cercando i segni di una filosofia della storia pratica, umile, povera, da fare a piedi: l’unica filosofia della storia efficace: nella mia mente vorticano le parole, gli scritti, le vicende di Simone Weil, di Hanna Arendt, di Benjamin, di Dostoevskij, di Francesco d’Assisi, di Gandhi. “Se non c’è speranza (e non c’è speranza) fai del tuo corpo speranza e vai”. Persone che, rinunciando all’ideologia, rinunciando alla real-politick e al buon senso e, in sostanza, rifiutando di “appartenere al secolo” e dando “il corpo come un’offerta vivente” (secondo le massime e definitive raccomandazioni di Paolo), hanno cambiato per sempre il rapporto dell’uomo con la Storia, inventando ciò che prima non esisteva, materialmente, concettualmente, ognuna a suo modo e nel suo ambito.
Parto pensando all’esperimento sociale di Milgram, ispirato al processo ad Eichmann che si svolse a Gerusalemme nel ’60 (in presenza della Arendt, che ne scrisse). Milgram dimostrò che più del 60% della persone normali, scelte a caso, sono disposte a torturare una qualunque altra persona, fino quasi a indurne la morte, purché si presentino tre condizioni: non assistere al supplizio troppo da vicino; avere la garanzia assoluta riguardo l’impunità della propria azione; sapere che l’azione è voluta da un’autorità riconosciuta unanimemente all’interno della propria comunità di riferimento. Milgram elaborò la teoria che “ogni situazione è caratterizzata da una propria ideologia”, il che implicherebbe una costante ridefinizione del significato e del valore morale degli eventi, delle azioni e del proprio ruolo: ciò che una volta è considerato un abominio e un male assoluto, un’altra volta può diventare tranquillamente il frutto della propria azione consapevole.
Parto pensando al cristianesimo, che sento come una strada oscura, puntellata da luci fortissime, che ha condotto la nostra civiltà fino al punto presente: ovviamente anche il razionalismo, l’anticlericalismo, l’ateismo, il socialismo e, in definitiva, il nostro fragile laicismo, sono un frutto naturale dell’evoluzione della civiltà cristiana. Eppure è una storia tenebrosa, perché l’origine di questa religione è stata cancellata da chi ne ha voluto riscrivere le premesse, per scopi altrettanto oscuri. Non sapremo mai la verità: ma sappiamo con certezza che Paolo, che ha approfittato dallo sterminio dell’unica comunità fondata direttamente da Cristo e guidata da “Giacomo fratello del Signore” per affermare la propria visione del Cristianesimo, rendendolo certamente una dottrina più universale e meno esoterica, ma raffreddandone probabilmente la potenza sconvolgente e trasfigurante dell’individuo e della comunità. Ebbe il sopravvento proprio lui che, autodichiaratosi apostolo secondo le sue visioni, tra gli apostoli è l’unico a non avere mai incontrato personalmente Gesù!
Ma il Cristianesimo conserva, anche nei soli quattro vangeli tardivamente selezionati allo scopo di creare una religione di stato ragionevole, per non parlare degli altri esclusi, una forza dirompente e un’originalità assoluta che lo distingue anche dagli altri due monoteismi: la sostituzione della figura del “profeta” con quella del “beato” (poi diventato, con operazione ideologica e restauratrice post medievale, il “santo”, distinto dalla persona comune e soprannaturale): cioè l’annullamento dell’abisso che separa Dio dall’uomo: Dio si fa uomo, e da quel momento l’uomo può avvicinarsi spericolatamente a Dio, attraverso quella specifica follia antisociale, anti real-polick, ma realmente trasformante nei confronti della Storia, che è la beatitudine (santità). La conoscenza di Francesco, della sua vita e degli scritti che lo riguardano, è fonte di un’illuminazione definitiva, rispetto a questa faccenda.
Risalire alle fonti dal Cristianesimo, nei luoghi storici e insieme dentro di me, nel mio profondo immaginario ereditato dalla catena delle generazioni che si sono susseguite, combattendo l’immaginazione (“l’immaginazione è il nostro inferno”, come dice Simon Weil) per attingere ai contenuti scabri di un immaginario “vero”, non fantasioso, fatto di quegli oggetti interiori che restano inamovibili anche alla fine del più radicale processo di spoliazione, attraverso i quali necessariamente guardiamo (e forse riusciamo e vedere davvero) la realtà.
Parliamo di realismo spirituale? Parliamo di Dante? Parliamo di Dostoevskij?
Vorrei interrogare i santi, i veri poeti, gli angeli, le pietre, a questo proposito.
Parto pensando a Darwish e ai poeti e alle poetesse polastinesi, che quando leggono i loro testi in pubblico riempiono gli stadi con migliaia di persone, che applaudono come a un concerto rock...
...Queste sono alcune premesse del mio viaggio.
Scrivendole realizzo anche un necessario passaggio di consegna tra il mio viaggio interiore che ho condotto fino ad ora -attraverso la preparazione, le molte letture, la riflessione, alcuni incontri- e il viaggio fisico che inizierà domattina -e sarà tutta un’altra storia.
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